L’Emilio: libro III,
l’insegnamento tra i 12 e i 15 anni
L’insegnamento non consiste in
una trasmissione di informazioni da docente a discente, bensì nella posizione,
volta a volta, di problemi che il discente stesso dovrà poi risolvere. L’insegnamento,
se è legittimo ancora utilizzare questo termine, si risolve pertanto: 1) nella
posizione di un problema che il discente dovrà risolvere; 2) nel mostrare come
la risoluzione di quel problema abbia una ricaduta pratica, cioè nel mostrare
l’utilità di quello specifico sapere.
Rendete il vostro allievo attento ai fenomeni della natura, ben presto
lo renderete curioso; ma, per nutrire la sua curiosità, non affrettatevi mai a
soddisfarla. Mettete le questioni alla sua portata, e lasciategliele risolvere. Che non sappia nulla perché voi glielo avete
detto, ma perché lo ha capito lui stesso; che non impari la scienza, ma la
inventi. (Libro III, 2)
…Se non si deve esiger niente dai bambini per obbedienza, ne segue che
non possono imparare nulla di cui non sentano il vantaggio presente ed attuale,
sia di diletto, sia d’utilità; altrimenti che motivo li indurrebbe ad
apprendere? (Libro II, 14)
…Osservavamo la posizione della foresta a nord di Montmorency, quando
egli m’interruppe con la sua importuna domanda: A che serve ciò? Avete ragione,
gli dico, bisogna pensarci con comodo; e se troveremo che questo lavoro non
serve a niente, non lo riprenderemo più, giacché non ci mancano certo i
divertimenti utili. Ci si occupa d’altro, e per il resto della giornata non si parla
più di geografia.
…L’indomani mattina gli propongo una passeggiata prima di colazione;
egli non domanda di meglio: per correre i bambini sono sempre pronti e questo
ha buona gambe. Entriamo nella foresta e percorriamo i prati, ci sperdiamo, non
possiamo più ritrovare la nostra strada. Il tempo passa, viene caldo,
cominciamo ad aver fame; ci affrettiamo, erriamo vanamente da una parte
all’altra, dappertutto non troviamo che boschi, cave, spianate, nessun indizio
per raccapezzarci. […] Dopo qualche istante di silenzio gli dico con aria
inquieta: Mio caro Emilio, come faremo ad uscire di qui? Emilio:
Non lo so. Sono stanco; ho fame; ho sete; non ne posso più. Gian
Giacomo: Credete che io stia meglio di
voi? E pensate che mi asterrei dal piangere se potessi far colazione con le mie
lagrime? Non si tratta di piangere, si tratta di raccapezzarci. Vediamo il
vostro orologio; che ora è? Emilio: E’
mezzogiorno e sono digiuno.
Gian Giacomo: E’ vero, è
mezzogiorno e sono digiuno.
Emilio: Oh! Che fame dovete
avere!
Gian Giacomo: Il male è che il
mio desinare non mi verrà a cercare qui. E’ mezzogiorno: è precisamente l’ora
in cui ieri, da Montmorency, osservavamo la posizione della foresta. Se noi
potessimo anche osservare dalla foresta Montmorency?
Emilio: Sì; ma ieri noi vedevamo
la foresta, e da qui non vediamo la città.
Gian Giacomo: Ecco il male….. se
potessimo fare a meno di vederla per trovare la sua posizione?
Emilio: O mio buon amico!
Gian Giacomo: Non dicevamo che la foresta era…
Emilio: A nord di Montmorency.
Gian Giacomo: Di conseguenza
Montmorency dev’essere…..
Emilio: A sud della foresta.
Gian Giacomo: Noi abbiamo un
mezzo di trovare il nord a mezzogiorno.
Emilio: Sì, con la direzione
dell’ombra.
Gian Giacomo: Ma il sud?
Emilio: Come fare?
Gian Giacomo: Il sud è l’opposto del nord.
Emilio: Questo è vero; basta
cercare l’opposto dell’ombra. Oh! Ecco il sud! Ecco il sud! Certo Montmorency è
da quest parte; cerchiamo da questa parte.
Gian Giacomo: Potete aver
ragione: prendiamo questo sentiero attraverso il bosco.
Emilio: Ah! Io vedo Montmorency!
Eccola, proprio davanti a noi, tutta in vista. Andiamo a mangiare, andiamo a
desinare; corriamo presto: l’astronomia
serve a qualche cosa. Badate che se egli non dirà quest’ultima frase, la
penserà; poco importa, purché solo non sia io a dirla.
A partire dal 1749 Rousseau è uno
dei collaboratori dell'Encyclopédie, opera per la quale scriverà diversi
articoli soprattutto di argomento musicale. Vive nell'ambiente degli
intellettuali parigini a stretto contatto con le personalità più influenti del
movimento illuminista, al cui gruppo per un certo periodo appartiene. Ma nel
dicembre del 1757 si consuma la rottura con gli amici di un tempo: gli
illuministi si distaccano da lui, egli da loro, sempre più duramente. E’ sua la
scelta della solitudine, dalla quale parla al suo pubblico attraverso i suoi
libri testimoniando con la sua vita il rifiuto della società del tempo.
Indipendentemente da problemi dovuti a incomprensioni ed a motivi personali di
conflitto, che pure vi furono, la radice profonda del dissidio con il gruppo
dei philosophes è nella diversa visione dell'uomo. Rousseau sottolinea
il ruolo della coscienza e del sentire, morale e religioso, e
diffida della concezione illuminista della ragione. È contrario all'ateismo,
diffuso tra i ceti elevati della società francese, così contrario al comune
sentire del popolo. Rispetto alla società letteraria del tempo Rousseau prende
il più possibile le distanze e si appella al pubblico. Questo è il clima
spirituale nel quale, nell'isolamento di Montmorency, nascono parallelamente il
Contratto sociale e l'Emilio.
Il manoscritto di quest'ultimo
viene stampato contemporaneamente a Parigi e ad Amsterdam, superate le
resistenze dello stesso Rousseau che, a causa di un capitolo in esso presente, Professione
di fede del vicario savoiardo, teme per le conseguenze della
pubblicazione dell'opera in Francia. Aveva ragione di temere. Essa appare nel
maggio del 1762, e già il 9 giugno il parlamento di Parigi accogliendo la
richiesta del Fleury - l'uomo che aveva attaccato l'Encyclopédie -
condanna a maggioranza l'Emilio «ad essere lacerato e dato alle fiamme
dall'Esecutore dell'Alta Giustizia». Avvertito nella notte dell'arresto
imminente, Rousseau deve immediatamente fuggire. Due giorni dopo l'opera viene
data alle fiamme sui gradini del Palazzo di giustizia. Quindi si ha una analoga
condanna da parte di Ginevra - condanna particolarmente dolorosa per Rousseau.
Poi nell'agosto il vescovo di Parigi mette il libro all'indice e nell'ottobre
giunge la condanna dello stesso Papa Clemente XIII.
L’Emilio: Libro IV, Professione di fede di un vicario savoiardo
Appendice che precede la professione e che puntualizza quale idea abbia
Rousseau riguardo l’insegnamento tradizionale della religione:
L’uomo no comincia facilmente a pensare, ma non appena comincia non
cessa più. Chiunque ha pensato penserà sempre, e l’intelletto esercitato alla
riflessione, non può più restare in riposo. All’idea di Diosi arriva solo
lentamente e per astrazione, partendo dalle esperienze sensibili…la parola
spirito non ha alcun significato per chi non ha filosofato. L’uso prematuro di
tali concetti non fa che promuovere concezioni inadeguate e antropomorfiche
dello spirito e della divinità. Concepire l’idea di Dio significa concepire una
sostanza o causa assoluta, che abbraccia e spiega tutto l’ordine dell’Universo,
ciò è appunto la più alta delle astrazioni…Prevedo quanti lettori saranno
sorpresi nel vedermi seguire tutta la prima età del mio allievo senza parlargli
di religione. A quindici anni non sapeva se aveva un’anima e forse a diciotto
non ancora tempo che lo impari…se avessi da dipingere la stupidità importuna,
dipingerei un pedante che insegna il catechismo ai fanciulli; se volessi
rendere un bambino pazzo, lo obbligherei a spiegare ciò che dice recitando il
suo catechismo. Mi si obbietterà che la maggior parte dei dogmi cristiani sono
dei misteri…non vedo cosa ci si guadagni a insegnarli ai bambini, salvo che
insegnar loro a mentire assai per tempo. Bisogna credere in Dio per essere
salvati. Questo dogma mal inteso è il principio della sanguinaria intolleranza
e la causa di tutte quelle vane istruzioni che portano il colpo mortale alla
ragione umana abituandola ad accontentarsi di parole…non c’è un momento da
perdere per meritare la salute eterna; ma se per ottenerla, è sufficiente
ripetere certe parole, non vedo cosa ci impedisca di popolare il cielo di
storni e di gazze così come di bambini…la fede dei fanciulli e di molti uomini
è un affare di geografia. Saranno ricompensati per essere nati a Roma piuttosto
che alla Mecca? Si dice ad uno che Maometto è il profeta di Dio…si dice
all’altro che Maometto è un furfante…Sarebbe meglio non avere alcuna idea della
Divinità, piuttosto che averne idee basse, fantastiche ed ingiuriose indegne di
lei…
Questa «Professione di fede» si
può dividere in tre parti: 1) racconto delle disavventure personali che misero
il Vicario in uno stato d’animo di incertezza e di dubbio, avendo scosso la sua
fede nella giustizia, e vano ricorso ai filosofi per averne illuminazione; 2)
delineazione in forma argomentativa di un completo sistema di religione
naturale; 3) discussione sul problema della rivelazione e su quello della
preferibilità di una o di un’altra particolare religione rivelata. Qui di
seguito saranno in parte riportate, in parte maggiore riassunte le parti 2) e
3).
Compresi che, lungi dal
liberarmi dai miei dubbi inutili, i filosofi non avrebbero fatto che
moltiplicare quelli che mi tormentavano e non ne avrebbero risolto alcuno.
Presi dunque un’altra guida e mi dissi: consultiamo il lume interiore, esso mi svierà meno che quelli non mi sviino
o in ogni caso il mio errore sarà il mio, e mi depraverò meno seguendo
le mie proprie illusioni che abbandonandomi alle loro menzogne.
Io credo che una volontà muova
l’universo e animi la natura. Se la materia in quanto mossa mi rivela una volontà, la materia mossa secondo
precise leggi mi rivela un’intelligenza.
L’uomo è dunque libero nelle sue azioni e, come tale, animato da una sostanza
immateriale.
…Io esisto, e ho dei sensi per mezzo dei quali
sono impressionato. Ecco la prima verità che mi colpisce, e alla quale sono
forzato ad assentire…Le mie sensazioni si svolgono in me, poiché esse mi fanno
sentire la mia esistenza; ma la loro causa mi è estranea, poiché esse mi
impressionano mio malgrado, e non dipende da me né produrle né annullarle.
Concepisco dunque chiaramente che la sensazione che è in me, e la sua causa o
il suo oggetto che sono fuori di me, non sono la stessa cosa. Così, non
soltanto io esisto, ma esistono degli altri esseri, cioè gli oggetti delle mie
sensazioni; e quand’anche questi oggetti non fossero che delle idee, è sempre
vero che queste idee non sono io.
Ora, tutto quello che sento
fuori di me e che agisce sui miei sensi, io lo chiamo materia; e tutte le
porzioni di materia che concepisco riunite in esseri individuali, le chiamo
corpi. Così tutte le dispute degli idealisti e dei materialisti non
significano niente per me: le loro distinzioni sull’apparenza e la realtà dei
corpi sono delle chimere.
Le prime cause del movimento
non sono affatto nella materia; essa riceve il movimento e lo comunica, ma non
lo produce. Più osservo l’azione e reazione delle forze
della natura agenti le une sulle altre, più trovo che, d’effetto in effetto,
bisogna sempre risalire a qualche volontà come causa prima; ammettere infatti
un regresso di cause all’infinito equivale a non ammettere niente. In una
parola, ogni movimento che non è prodotto da un altro, non può venire che da un
atto spontaneo, volontario; i corpi inanimati non agiscono che per mezzo del
movimento, e non vi sono affatto delle vere azioni senza volontà. Ecco il mio
primo principio. Io credo dunque che una volontà muove l’universo e anima la
natura. Ecco il mio primo dogma, o mio primo articolo di fede.
Se la materia mossa mi mostra
una volontà, la materia mossa secondo certe leggi mi mostra una intelligenza:
questo è il mio secondo articolo di fede. Agire, confrontare, scegliere, sono
le operazioni di un essere attivo e pensante: dunque questo essere esiste. Dove
lo vedete esistere? mi state per dire. Non soltanto nei cieli che ruotano,
nell’astro che ci rischiara; non soltanto in me stesso, ma nella pecora che
pascola, nell’uccello che vola, nella pietra che cade, nella foglia che
trasporta il vento.
…Ignoro perché l’universo
esiste, ma non cesso mai di guardare come è modificato…Io non so, direbbe, a
che serve tutto questo; ma vedo che ciascun pezzo è fatto per l’altro; ammiro
l’operaio nei particolari della sua opera, e sono ben sicuro che tutte queste
ruote non vanno così di concerto che per un fine comune che mi è impÈ
impossibile pensare che quest’armonia venga dal caso, per quanto possa supporre
immenso il numero dei casi possibili Sarebbe come pensare che « dei caratteri
di stampa, gettati a caso, hanno dato l’Eneide bell’e formata ». Il mondo è
dunque «governato da una volontà potente e saggia». Le varie difficoltà
metafisiche che possono sorgere passano in seconda linea di fronte a questa
verità luminosa.
«Questo essere che vuole e che
può, questo essere attivo per se stesso, questo essere infine, qualunque esso sia,
che muove l’universo e ordina tutte le cose, io lo chiamo Dio. Unisco a questo
nome le idee di intelligenza, di potenza, di volontà, che ho già riunite, e
quella di bontà che ne è una conseguenza necessaria.» Tuttavia di questo
essere so ben poco, per quanto lo veda dappertutto nelle sue opere.
Se poi mi volgo a considerare
qual posto occupo io, uomo, nell’ordine delle cose, sono colpito dalla mia eccellenza.
L’uomo è veramente «il re della terra che abita», la sua perfezione è
incommensurabilmente maggiore di quella di ogni altra cosa o essere vivente.
Ciò suscita in me un «sentimento di riconoscenza e di benedizione per l’autore
della mia specie, e da questo sentimento viene il mio primo omaggio alla
divinità benefattrice. Adoro la potenza suprema e mi intenerisco sui suoi benefici».
Ma se poi considero la società
umana come tale, il quadro muta totalmente, non vi vedo che confusione e
disordine, e nasce il problema di spiegare «il male sulla terra».
…L’uomo è dunque libero nelle
sue azioni, e come tale animato da una sostanza immateriale, questo è il mio
terzo articolo di fede. Da questi primi tre dedurrete facilmente tutti gli
altri, senza che io continui a tenerne il conto.
Iddio ha preferito farmi
libero, lasciandomi con ciò la possibilità di volgermi al male, piuttosto che
farmi buono per forza: «E che! per impedire all’uomo di essere cattivo,
bisognava limitarlo all’istinto e farlo bestia?».
Messo assieme così questo corpo
di credenze essenziali, rimane il problema delle massime da trarne per la mia
condotta. Esse si trovano in fondo al mio cuore, nella mia coscienza che è la
migliore guida, «il migliore di tutti i casisti», con la quale non si
mercanteggia. «La coscienza è la voce dell’anima, le passioni sono la voce del
corpo.» La voce della coscienza, pur debole, è presente in tutti, e non ha
nulla a che fare con l’interesse, Troviamo i suoi dettami essenziali affermarsi
più o meno presso tutti i popoli e in tutte le epoche. Essa non è un portato
dell’educazione. Sua funzione è di indicarci dei «beni morali» per conseguire i
quali si affronta talvolta anche la morte. Ma com’è possibile che la coscienza
si imponga al nostro essere sensitivo? È perché essa stessa è piuttosto un
sentimento, un istinto, che un’idea astratta.
Esistere per noi è sentire; la
nostra sensibilità è incontestabilmente anteriore alla nostra intelligenza, e
noi abbiamo avuto sentimenti prima che idee. Quale che sia la causa del nostro
essere essa ha provveduto alla nostra conservazione dandoci dei sentimenti convenienti
alla nostra natura; e non si potrebbe negare che almeno quelli siano innati.
Questi sentimenti, quanto all’individuo, sono l’amore di sé, la paura del
dolore, l’orrore della morte, il desiderio del benessere. Ma se, come non si
può dubitare, l’uomo è socievole per sua natura, o almeno fatto per diventarlo,
egli non può esserlo che per altri sentimenti innati, relativi
alla sua specie; infatti, a non considerare che il bisogno fisico, questo deve
certamente disperdere gli uomini anziché avvicinarli. Ora è dal sistema morale
formato per mezzo di questo duplice rapporto con se stesso e con i suoi simili
che nasce l’impulso della coscienza 1“. Conoscere il bene non è
amarlo: l’uomo non ne ha una conoscenza innata; ma non appena la sua ragione
glielo fa conoscere, la sua coscienza lo porta ad amarlo; è questo sentimento
che è innato.
Quando il Vicario ha finito il
suo ispirato discorso, nel quale R. vede, su per giù, «il teismo [13] o la religione
naturale, che i cristiani affettano di confondere con l’ateismo o
l’irreligione, che è la dottrina direttamente opposta», il giovane suo
ascoltatore chiede che gli parli della Rivelazione, delle Scritture, dei dogmi.
Il Vicario sembra cambiare
tono: in queste questioni non vede che «imbarazzo, mistero, oscurità», non vi
sente che «incertezza e diffidenza». Inizia criticando l’idea di Rivelazione,
per l’impossibilità stessa di provarla tale. I miracoli, a parte la loro
attendibilità, non provano niente neanche per il credente: «dopo aver provato
la dottrina per mezzo del miracolo, bisogna provare il miracolo per mezzo
della dottrina, per paura di scambiare l’opera del demonio con l’opera di Dio»;
infatti le stesse Scritture dicono che i miracoli di un profeta annunziante
degli dèi stranieri sono buone ragioni per metterlo subito a morte. Le
profezie sarebbero credibili solo da chi ne fosse testimonio diretto, e fosse
poi altresì testimonio dell’avvenimento, e potesse tassativamente escludere
che si tratti di coincidenza fortuita.
Si tratterebbe semmai di
scegliere tra le diverse religioni razionalmente, in base ad un giudizio
motivato. Ma come fondare un tale giudizio? Dove una religione predomina, le
ragioni delle altre vengono distorte, e neppure i pochi che le professano
hanno il coraggio di esporle senza riserve. Se gli uomini volessero sul serio
operare una tale scelta, dovrebbero viaggiare e studiare tutta la vita, e nel
mondo non si farebbe più altro, se pure la società potesse sussistere.
Unica rivelazione, unico «libro»
è quello della natura. La «santità del Vangelo » è un argomento che parla al
cuore, ma perciò appunto siamo autorizzati a trarne tutto quanto il cuore
approva e cosi la nostra ragione, non le « cose incredibili », le « cose che
ripugnano alla ragione », che pure vi sono.
Ecco lo scetticismo
involontario nel quale sono rimasto; ma questo scetticismo non mi è per niente
penoso, perché non si estende affatto ai punti essenziali per la pratica, e
perché io sono ben deciso sui principi di tutti i miei doveri. Io servo Dio
nella semplicità del mio cuore. Non cerco di sapere che ciò che è importante
per la mia condotta. Quanto ai dogmi che non influiscono né sulle azioni, né
sulla condotta, e per i quali tanta gente si tormenta, io non ci sto punto in
angustie. Considero tutte le religioni particolari come tante istituzioni
salutari che prescrivono in ciascun paese una maniera uniforme di onorare Dio
per mezzo di un culto pubblico, e che possono tutte aver le loro ragioni in
base al clima, al governo, al genio del popolo, o a qualche altra causa locale
che rende l’una preferibile all’altra, secondo i tempi e i luoghi. Io le credo
tutte buone quando vi si serve Dio convenientemente. Il culto essenziale è
quello del cuore.
La conclusione cui giunge il
Vicario è che ciascuno farebbe bene ad accettare completamente la religione del
suo paese, con questa sola, ma decisiva riserva: di opporsi ad ogni suo
aspetto di intolleranza. Perciò consiglia al giovane Rousseau di tornarsene a
Ginevra e di riprendere la. religione dei suoi padri, giacché «nell’incertezza
in cui siamo, è una presunzione imperdonabile il professare un’altra religione
che non sia quella in cui si è nati». “Figlio
mio, tenete la vostra anima in stato da desiderare che vi sia un Dio, e non ne
dubiterete mai», asserisce il Vicario come ultimo succo di tutti i suoi
ragionamenti, e conclude con un’ultima puntata polemica contro le «desolanti
dottrine» dei filosofi materialisti, che pure « si vantano ancora di essere i
benefattori del genere umano ».