martedì 10 novembre 2015

La figura di Abramo

La vicenda di Abramo ed Isacco nella filosofia
di Kant, Hegel, Kierkegaard e Mancuso




Timore e tremore di Soren Kierkegaard

Immaginando un uomo che ossessivamente torna al racconto di Abramo che aveva ascoltato più volte da bambino, Kierkegaard ci offre la vicenda del sacrificio di Isacco come paradigma di una fede che supera i confini dell'amore umano e proietta Abramo tra i grandi dell'umanità.

I
« E avvenne che Dio provò Abramo. E disse: Prendi ora il tuo figliolo, il tuo unico, colui che ami, Isacco, e vattene nel paese di Moriah, e offrilo quivi in olocausto sopra uno dei monti che ti dirò ». Era mattina: Abramo si levò, fece sellare gli asini, lasciò la sua abitazione insieme a Isacco; e, dalla finestra, Sara li guardò scendere lungo la valle finché non li perdette di vista. Camminarono tre giorni in silenzio; alla mattina del quarto giorno Abramo non disse parola, ma, levando gli occhi, vide in Iontananza le montagne di Moriah. Rimandò indietro i suoi servi e, preso Isacco per mano, salì la montagna. Ma Abramo diceva: Eppure non posso nascondergli dove lo conduce questo cammino ». Si fermò, mise la mano sul capo del suo figliolo per benedirlo e Isacco s'inginocchiò per ricevere la benedizione. E il volto di Abramo era quello di un padre; dolce era il suo sguardo, e la sua voce esortava. Ma Isacco non poteva comprenderlo; la sua anima non poteva innalzarsi fin là. Abbracciò le ginocchia d'Abramo, si gettò ai suoi piedi e chiese grazia; implorò per la sua giovane vita e per le sue belle speranze; disse la gioia della casa paterna, ne evocò la tristezza e la solitudine. Allora Abramo rialzò il fanciullo, Io prese per mano e camminò; la sua voce esortava e consolava. Ma Isacco non lo comprendeva. Abramo salì la montagna. Ma Isacco non lo comprendeva. Allora Abramo si distolse un attimo dal suo figliolo, e quando era la seconda volta vide il volto di suo padre, lo trovò mutato, perchè lo sguardo era cupo e selvaggio e la sua figura era orribile. Afferrò Isacco al petto, lo gettò per terra e disse: «Stupido! Credi proprio che io sia tuo padre?  Io sono un idolatra. Credi che io obbedisca a un ordine di Dio? No, io faccio quel che più mi piace ». Allora Isacco fremette e, nella sua angoscia, gridò: « Dio del cielo, abbi pietà di me! Dio d'Abramo, abbi pietà di me, sii mio padre, non ne ho altri sulla terra! Ma Abramo ripeteva a voce bassa: « Dio del cielo, io ti rendo grazie è meglio ch'egli mi creda un mostro piuttosto che perda la fede in te».
Quando il bimbo deve essere svezzato, la madre si tinge di nero il seno, perchè sarebbe cosa crudele che esso restasse desiderabile quando il bambino non deve trarne più nutrimento. Così il bambino crede che sua madre è mutata, ma la madre è sempre la stessa e il suo sguardo è sempre pieno di tenerezza e d'amore. Beata la madre che non deve ricorrere a più terribili espedienti per svezzare suo figlio.



II
Era mattina presto. Abramo si levò, abbracciò Sara, la fidanzata della sua vecchiaia, e Sara dette un bacio a Isacco che l'aveva preservata dalla vergogna, lui, orgoglio suo e speranza sua per tutta la posterità. Cavalcarono in silenzio. Lo sguardo di Abramo rimase fisso a terra fino al quarto giorno. Allora, vide all'orizzonte la montagna di Moriah. Abbassò di nuovo lo sguardo. Preparò l'olocausto in silenzio e legò Isacco. In silenzio estrasse il coltello. Allora scorse il capro provveduto da Dio. Lo sacrificò e tornò indietro. Da quel giorno, Abramo fu vecchio; non poteva dimenticare quel che Dio aveva preteso da lui. Isacco continuò a crescere. Ma l'occhio di Abramo s'era fatto cupo; non vide mai più la gioia.
Quando il bambino divenuto grande, deve essere svezzato, sua madre nasconde pudicamente il seno e il bambino non ha più madre. Beato il bambino che non ha perduto altrimenti sua madre!



III
Era mattina presto. Abramo si levò, dette un bacio a Sara, 1a giovane madre; e Sara dette un bacio ad Isacco, gioia sua, sua felicità per sempre. E Abramo, sul suo asino, cavalcò pensieroso. Pensava ad Agar e al suo figliolo, ch'egli aveva cacciati nel deserto. Salì la' montagna; estrasse il coltello.
Era una sera silenziosa. Abramo cavalcò ancora, solo, verso il monte Moriah. Piegò a terra il suo volto chiedendo perdono perdono di aver voluto sacrificare Isacco, perdono d'aver dimenticato il suo dovere di padre verso suo figlio. Più d'una volta riprese il suo solitario cammino, ma non trovò più la pace. Non poteva comprendere ch'era stato un peccato aver voluto sacrificare a Dio il suo più caro bene, per il quale egli medesimo avrebbe dato più d'una volta la propria vita. E se pur era un peccato, se pur non aveva amato Isacco fino a tal punto, allora non poteva comprendere che quel peccato gli potesse esser stato perdonato. Ci può essere infatti un peccato più terribile?  
Quando il bambino dev'essere svezzato, anche la madre è triste, pensando che il suo figliolo ed essa saranno sempre più separati; che il bambino, prima sottoposto al suo cuore, poi cullato sul suo seno, non sarà mai più tanto vicino a lei. Subiscono dunque insieme quel breve dolore. Beata colei che così ha serbato suo figlio presso di sé, e non ha avuto altra cagione di dolore. 


IV
Era mattina presto. Nella casa di Abramo, tutto era pronto per la partenza. Si congedò da Sara. Eliezer, il servo fedele, lo seguì per un tratto di via, poi tornò indietro. Abramo e Isacco andarono insieme fino alla montagna di Moriah. Abramo fece tutti i preparativi del sacrificio in pace e tranquillità; ma quando si rivolse per estrarre il coltello, Isacco vide che la sinistra di suo padre si stringeva per disperazione e che un fremito ne scuoteva il corpo; eppure Abramo sfilò il coltello. 
Allora tornarono a casa e Sara si affrettò incontro a loro. Ma Isacco aveva perduto la fede. Di ciò non si è mai parlato. Isacco non disse mai nulla a nessuno di quel che aveva veduto e Abramo non sospettò che qualcuno avesse veduto. Quando il bambino dev'esser svezzato, la madre fa ricorso ad un più forte nutrimento perché il bimbo non muoia. Beato chi dispone di un nutrimento più forte!
Così, e in vari altri modi, rifletteva su quell'avvenimento l'uomo del quale parlavamo. Ogni volta ch'egli tornava dalla montagna di Moriah a casa sua, si lasciava cadere per stanchezza, giungeva le mani e diceva: Nessuno è stato mai grande come Abramo. Chi potrà dunque comprenderlo?»

Lo spirito del cristianesimo e il suo destino di G. W. Hegel

Hegel ci propone un'immagine di Abramo come l'emblema stesso del contrasto tra il popolo ebraico e la natura, contrasto che si incarna in lui e nelle sue evidenti contraddizioni rispetto alla natura umana: egli abbandona la propria terra, vive in una terra aspra ed ostile ed arriva a preparare l'estremo sacrificio del figlio, il tutto in nome della chiamata ricevuta da Dio (il suo ideale per Hegel) che lo pone in dissidio con tutto ciò che lo circonda. E' il rafforzarsi dell'infelice destino del popolo ebraico, dopo le vicende di Noè e Nimrod, un popolo che si pone in conflitto con la natura e con gli altri popoli, affidandosi unicamente ad un Dio distante e punitivo.

Abramo, nato in Caldea, già in gioventù aveva abbandonato una patria insieme a suo padre. Ora andava vagando nelle pianure della Mesopotamia completamente libero dalla sua famiglia per essere del tutto autonomo e indipendente, per essere egli stesso un capo, senza essere offeso o ingiuriato, senza il dolore che dopo un torto o un'offesa annunzia il persistente bisogno dell'amore, il quale, colpito certo ma non perduto, va in cerca di una nuova patria per rifiorivi e godervi di se stesso. Il primo atto con cui. Abramo diviene capostipite di una nazione è una separazione che rompe i legami della convivenza e dell'amore, la totalità delle relazioni in cui egli ha vissuto finora con gli uomini e con la natura. Egli scaccia da sé queste belle relazioni della sua gioventù. [...]


guidato tra le genti straniere, in cui si imbatté nel seguito della sua vita, dallo stesso spirito che lo aveva portato lontano dai suoi consanguinei: lo spirito di mantenersi in rigorosa opposizione verso tutto, il pensato elevato a unità dominante sulla natura infinita e ostile. Infatti nell'ostilità la sola relazione possibile è la relazione di dominio; Abramo vagò con il suo in un territorio senza confini: di cui non rese a sé più vicine, coltivandole e abbellendole, singole parti che in tal modo gli sarebbero state care e che egli avrebbe accettato come parti del suo mondo: la terra era destinata solo al pascolo del suo gregge. L'acqua stagnava in profonde gore, morta, immobile; scavare in cerca di essa era laborioso; a caro prezzo quindi veniva comprata o disputata, proprietà estorta, necessario bisogno per lui e per il suo gregge. E presto abbandonava i boschetti che sovente gli avevano dato frescura ed ombra. In essi egli aveva invero teofanie, apparizioni del suo intero alto oggetto; ma non vi si fermava con quell'amore che li avrebbe fatti degni e arteci la divinità. Egli fu estraneo alla terra, tanto nei confronti del territorio c e degli uomini, fra i quali fu e rimase sempre uno straniero, se pur non tanto indipendente e lontano da loro da non aver bisogno di conoscere qualcosa di loro e aver con loro a che fare. [...]


Il mondo intero era per lui senz'altro l'opposto; e se non poteva divenire un nulla, era perché aveva il suo sostegno nel Dio ad esso estraneo, di cui niente nella natura poteva aver parte ma da cui tutto era dominato. Anche Abramo, l'altro termine dell'opposizione con il mondo che non avrebbe potuto essere nulla di più che l'opposto, era tenuto in essere da Dio; solo per mezzo di Dio entrava in relazione immediata con il mondo, unico genere di legame a lui possibile. Il suo ideale gli assoggettava il mondo e gli offriva di esso tanto quanto gli abbisognava, ponendolo verso il resto in uno stato di sicurezza. Solo che non poteva amare nulla. Anche il solo amore che egli ebbe, quello per suo figlio e la speranza di discendenza, l'unico modo di estendere il proprio essere, il solo genere d'immortalità che conoscesse e sperasse, a tal punto poterono opprimerlo o turbare il suo cuore, estraniatosi da tutto e ridurlo in un tale stato di inquietitudine, che egli volle distruggere anche quest'amore, e si placò solo quando ebbe sentimento certo che questo amore non era così forte da renderlo incapace di colpire il figlio amato con la sua propria mano. 
In quanto Abramo non poteva realizzare da sé la padronanza sul mondo, il solo rapporto per lui possibile con il mondo infinito e contrapposto, questo rimaneva in cessione al suo ideale; anche egli era sotto il suo dominio, ma nel suo spirito vi era l'idea; a questa egli serviva e perciò godeva del favore dell'Ideale; e giacché la sua divinità aveva alla sua radice il disprezzo per tutto il mondo così egli restava l'unico favorito.

Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, trad. di N.Vaccaro e E.Mirri, Napoli, Guida, 1972, pp. 353-357.


Io e Dio di Vito Mancuso

Ritornando alle riflessioni di Kirkegaard sulla figura di Abramo innalzata a vero e proprio modello di uomo religioso, Mancuso citando fra gli altri Kant, propone una propria originale riflessione sulla vicenda del sacrificio di Isacco sottolinenando il distacco tra religione ed etica, emerso dalla visione di Kierkegaard, e che non può essere tollerato da chi, come lui, ritiene invece indissolubile il legame tra Dio e il bene, tra Dio e il senso della giustizia. 

V. IL MIO DIO
29. «Ma chi era quello che doveva uccidere suo figlio per ordine di Dio ?»
...Allora abitavamo in campagna e io svegliavo i miei figli alle 6.45, visto che la scuola era lontana. Quella mattina Stefano, il mio figlio maggiore allora undicenne, al mattino di solito taciturno, mi chiede: «Papà, ma chi era quello che doveva uccidere suo figlio per ordine di Dio?». Mi viene da pensare: ma guarda questo qui, a quest'ora, con gli occhi cisposi e i capelli all'aria, che cosa si mette a pensare, chissà che sogno avrà fatto. Poi gli dico che si trattava di Abramo. A quel punto Caterina, che allora aveva sette anni e dormiva ancora nella medesima camera del fratello, mi chiede: «Papà, ma se Dio ti ordina di uccidermi, tu mi uccidi?». Momento di difficoltà. Non rispondo e inizio ad allacciarle le scarpe. Poi però sento dentro di me che una risposta a mia figlia la devo, e le dico senza esitare: «No Caterina, non se ne parla nemmeno. Se Dio mi dovesse ordinare una cosa del genere, gli direi di no. Sta' tranquilla, papà non ti tradirà mai». Ricordo che lo sguardo di mia figlia si fece luminoso, di quella luce che viene dalla gioia più intima, così difficile da descrivere, ma che penso tutti conosciamo. Poi colazione in cucina, di corsa in macchina verso la scuola, Abramo e tutto il resto dimenticato. Non da parte mia però, che mentre guidavo ero alle prese con una serie di dubbi: avevo fatto bene a rispondere così seguendo il mio istinto? Non avevo sminuito agli occhi dei miei figli la maestà di Dio e della Bibbia? Non avevo polverizzato con quella risposta così umana da poter essere troppo umana una tradizione millenaria di timore di fronte alla sacralità del mistero divino? La domanda di mio figlio aveva fatto riferimento al celebre episodio di Genesi 22, il cosiddetto sacrificio di Isacco, oggetto di innumerevoli opere d'arte, dai mosaici di San Vitale a Ravenna ai dipinti di Caravaggio, Rembrandt e altri illustri pittori. La storia è assai nota. Dio mette alla  prova Abramo: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va' nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». L'olocausto era considerato il sacrificio più prezioso perché a Dio si offriva tutta la vittima. senza riservarne nessuna parte per sè. e infatti olocausto significa propriamente «tutto bruciato». Senza dire una parola Abramo obbedisce: si alza all'alba, sella l'asino, prende due servi e suo figlio, spacca la legna per il fuoco dell'olocausto e va. Al terzo giorno ordina ai servi di fermarsi e prosegue solo con suo figlio. Il bambino a un certo punto gli chiede dove sia l'animale da sacrificare e lui gli risponde di stare tranquillo, che Dio provvederà. Arrivati al luogo indicato, «Abramo costruì l'altare, collocò la legna, legò suo figlio e lo depose sull'altare, sopra la legna. Poi stese la mano e prese il coltello  per immolare suo figlio» (Genesi 22,9-10). 


Quanto tempo sarà passato dal momento in cui Abramo iniziò a legare suo figlio a quando alzò il coltello su di lui? Trenta secondi, un minuto, due minuti? Quanto ci vuole a legare un bambino in modo che non si muova quando vedrà il coltello scendere verso di lui? Chissà che cosa avrà pensato in quella serie di interminabili attimi il piccolo Isacco, dopo aver capito che l'animale per il sacrificio di cui aveva chiesto notizia al padre, lungo la via, era proprio lui. Chissà quali immagini si andavano ammassando in quei momenti nella mente di quel bambino, quali immagini di Dio, della vita, di suo padre. Qualcuno ricorda il volto con il quale lo ha dipinto Caravaggio?



Tutti sanno che ad Abramo che già aveva alzato il coltello, appare un angelo che fortunatamente gli dice «non stendere la mano contro il ragazzo, non fargli niente!», poi gli fa trovare lì accanto un ariete e tutto si conclude in un trionfo con la voce celeste che proclama: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Genesi 22,16-18). 
Qual è il succo di questo episodio? La totale, assoluta, indiscussa obbedienza. Che cosa c'è infatti per un essere umano di più prezioso di un figlio? Nulla, e quando poi è unico, e quando poi è piccolo, la tenerezza è assoluta. Ebbene,.Dio arriva a chiedere ad Abramo di sacrificargli il figlio, di ucciderlo e poi di bruciarglielo interamente in sacrificio. Per quale motivo? Per provare la sua fede, per verificare se c'era qualcosa che Abramo gli avrebbe anteposto, per verificare se lui con la sua volontà era davvero il signore assoluto.
Il filosofo luterano Søren Kierkegaard ha dedicato ad Abramo e al sacrificio del figlio Isacco un'intera opera, Timore e tremore, nella quale presenta Abramo come il tipo ideale della fede, «il cavaliere della fede».  Abramo è tale perché, accettando il comando divino riguardo al figlio, sospende e oltrepassa l'universalità dell'etica e così entra in un rapporto assoluto con Dio. Abramo scavalca l'universalità dell'etica ed entra nella particolarità della religione, la quale però, ecco il paradosso kierkegaardiano, pretende di valere più della universalità etica: «La fede è appunto questo paradosso, cioè che il Singolo come Singolo è più alto del generale».
Kierkegaard scrive che Abramo in quanto cavaliere della fede «non dubitò, non si mise a sbirciare a destra e a sinistra con angoscia, non importunò il cielo con le sue preghiere. Sapeva che era Dio, l'Onnipotente, che lo metteva alla prova; sapeva che si poteva esigere da lui il sacrificio più duro: ma sapeva anche che nessun sacrificio è troppo duro quando è Dio che lo vuole — e cavò fuori il coltello». La tradizione ha visto in questo episodio il modello del vero uomo di fede in quanto esibisce un'assoluta obbedienza a Dio. Il volere divino può risultare terribile alla coscienza, il Dio «totalmente altro» può ordinare le cose più inaspettate, persino orribili crimini, ma non importa: quello che conta non è il bene in sé, ma solo il legame di assoluta devozione e obbedienza verso di lui: non l'universalità dell'etica, ma il rapporto particolare del singolo con Dio. Se c'è questa obbedienza totale, anche i crimini più orrendi risultano atti eroici (nel linguaggio della fede, «sacrifici») e chi è disposto a compierli diviene il modello della fede più pura.



Di quale Dio stiamo parlando? Di un„Dio la cui essenza è volontà assoluta da nulla determinata se non dal suo volere, e che è logico che generi nell'anima degli uomini che gli si accostano un senso di «timore e tremore». Quante volte le Chiese hanno fatto uso della paura per parlare di Dio, quante sofferenze e quante vite segnate dall'angoscia ne sono scaturite. Era un tema su cui Ingrnar Bergman (scandinavo come Kierkegaard) ritornava spesso nei suoi film. Ricordo in particolare Il settimo sigillo e Fanny e Alexander. Questa immagine di Dio e quindi di fede si ritrova nel Novecento nella prima fase della teologia di Karl Barth, nella quale il teologo svizzero di tradizione calvinista presenta l'idea di un Dio così slegato dai valori del bene e della giustizia da poter essere «la dannazione anche di un san Francesco d'Assisi e l'assoluzione anche di un Cesare Borgia... un No opposto a ogni Sì umano e un Sì opposto a ogni No umano». 
Questa figura arbitraria di un Dio quale sovrano terribile che per chissà quale insondabile volontà può ordinarti di uccidere il figlio e mandare all'inferno Francesco d'Assisi, è fortemente avversata dal filone umanistico (detto anche liberale o dialogico) della teologia cristiana, 'rappresentato durante l'umanesimo e il rinascimento da Niccolò Cusano, Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam, Sébastien Castellion; in epoca moderna da pensatori quali Lessing, Kant, Fichte, Hegel, Schelling, e dalla teologia liberale di Schleiermacher, von Harnack, Troeltsch; nel Novecento dalla teologia di Bonhoeffer e di Tillich in ambito protestante, e in ambito cattolico dai teologi all'origine del Vaticano II come Teilhard de Chardin, Chenu, Congar, Rahner, Küng, Schillebeeckx; ai nostri giorni dalla teologia della liberazione e dalla teologia del pluralismo religioso. 

Mi soffermo su Kant. Per il filosofo di Königsberg la «sospensione teologica dell'etica» di cui parlerà Kierkegaard qualche decennio dopo di lui, è inammissibile. Occorre piuttosto pensare che qualunque cosa sia in contrasto con la legge morale non viene da Dio, essendo Dio precisamente il bene, la realtà sussistente del bene (l'idea del principio buono), e quindi non potendo in alcun modo volere il male (e con ciò Kant non fa che esprimere la medesima prospettiva della più pura teologia cattolica).  In una delle ultime opere della sua vita, Il conflitto delle facoltà, precisamente in una delle note a piè di pagina alle quali talora egli usava affidare pensieri su tematiche delicate (immagino per avere meno problemi con la censura), Kant commenta proprio Genesi 22 dicendo che Abramo avrebbe dovuto agire in ben altro modo, non solo rifiutandosi di compiere quanto ordinatogli dalla voce celeste, ma giungendo a mettere in questione che la voce potesse essere davvero quella di Dio, visto che quanto è in contrasto con la morale non può venire da Dio.
 
Ecco le parole di Kant: «Può servire come esempio il mito del sacrificio che Abramo voleva offrire, per ordine divino, scannando e bruciando il suo unico figlio (il povero fanciullo per giunta portò inconsapevolmente la legna). A quella presunta voce divina Abramo avrebbe dovuto rispondere: "Che io non debba uccidere il mio caro figlio, è assolutamente certo; ma che tu che ti manifesti a me sia proprio Dio, di ciò io non sono né posso diventare sicuro", anche se tale voce risuonò dall'alto del cielo (visibile) ». Chi, teologicamente parlando, ha ragione? Chi tra Kierkegaard e Kant individua meglio l'autentico volto di Dio? Se la risposta è Kierkegaard, io quella mattina ho sbagliato a rispondere a mia figlia nel modo in cui ho fatto; avrei dovuto farle comprendere che comunque Dio viene prima di lei, dicendole, certamente con tatto per non traumatizzarne la delicata psiche infantile, che i sacrifici umani e che non c'è nulla da temere da parte di un Dio che non solo non chiede sacrifici umani ma che si sacrifica lui stesso per noi nella persona del figlio, e che il primato di Dio non è contro ma è a favore degli uomini, e tante altre cose di questo genere, ma comunque facendole al fondo capire che il primato spetta a Dio, al quale dobbiamo sempre obbedire, e non c'è nulla di più importante di questa obbedienza dovuta. Se la risposta invece è Kant, io quella mattina non ho sbagliato. Ma, teologicamente parlando, chi ha ragione?
A mio avviso è decisivo quanto scrive Martin Buber, uno che di Bibbia se ne intendeva parecchio. Interrogandosi proprio sulla legittimità della proposta kierkegaardiana di qualificare la fede come «sospensione dell'etica», Buber si sofferma a sua volta su Genesi 22: «Kierkegaard presuppone qui una cosa che non si può presupporre nemmeno nel mondo di Abramo e tanto meno nel nostro. Egli non tiene conto che la problematica della decisione di fede è preceduta da quella dell'ascolto: Chi è colui di cui si ode la voce?». Buber sta avanzando il medesimo dubbio di Kant. Poi prosegue nell'argomentazione: «Per Kierkegaard, partendo dalla tradizione cristiana in cui è cresciuto, è naturale che a esigere il sacrificio non possa essere altro che Dio. Per la Bibbia e certamente per l'Antico Testamento ciò non è del tutto evidente». L'esempio portato da Buber per sottolineare il dovere di sottoporre a discernimento critico ogni presunta voce divina riguarda il censimento del popolo voluto dal re Davide, che secondo un libro biblico (2Samuele) è voluto da Dio, secondo un altro (1Cronache) è voluto da Satana. A tale cautela di ordine oggettivo sottolineata da Buber, io credo se ne debba aggiungere un 'altra in considerazione della fragilità del nostro ascolto e della nostra capacità di comprensione, come attestato dalla stessa Bibbia: due ne ho udite» (Salmo 62,12) E quindi per motivi sia oggettivi sia soggettivi che si deve diffidare da ogni tendenza a pensarsi come singoli (tanto più se scritto enfaticamente con la maiuscola alla Kierkegaard, Singolo) e a strapparsi dalle regole universali. «Potrebbe succedere», continua Buber, «che un peccatore pensi di dover sacrificare a Dio per espiazione il proprio figlio.» In realtà, conclude il grande filosofo e teologo ebreo, Dio altro non esige che giustizia e amore, e che l'uomo tratti umilmente con lui, vale a dire non chiede molto di più dell'etica fondamentale» e il rimando di Buber è un passo del profeta Michea che contiene una chiara critica a Genesi 22. Ecco le parole di Miçhea, che traducono dapprima i dubbi di un uomo che si interroga su come relazionarsi adeguatamente a Dio: «Con che cosa mi presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo? Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà il Signore migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi? Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per i1 mio peccato?». Ed ecco la risposta profetica: «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Michea 6,68). Qui non c'è nessuna sospensione dell'etica.


Per anni ho giudicato inaccettabile il seguente detto rabbinico: «Amare la Torah più di Dio»  Vi vedevo il fanatismo legalista di chi non è disposto ad anteporre nulla al proprio codice religioso, di chi, tra lo spirito e la lettera, starà sempre dalla parte della lettera. Poi un giorno ho capito che non è così, o perlomeno non è necessariamente così. Amare la Torah più di Dio significa amare più della stessa idea di Dio, significa riporre l'assoluto nel bene e nella sua oggettività, e non in un divino numinoso con la sua insondabilità. Amare la Torah più di ogni altra cosa significa collocare il criterio assoluto della propria mente nell'alleanza tra Dio e gli uomini, nel patto sottoscritto, nelle regole a cui Dio stesso si lega per stabilire veramente l'armonia della comunione, e non l'arbitrio del dominio. Amare la Torah più di Dio significa non essere servi ma alleati, significa diventare «amici», come dice Giovanni 15,15 («Vi ho chiamato amici»). E l'amicizia, come hanno insegnato Pitagora e Aristotele, presuppone l'uguaglianza ("l'amicizia è uguaglianza").