mercoledì 2 marzo 2016

L'Emilio di Jean Jacques Rousseau, estratti


L’Emilio: libro III, l’insegnamento tra i 12 e i 15 anni

L’insegnamento non consiste in una trasmissione di informazioni da docente a discente, bensì nella posizione, volta a volta, di problemi che il discente stesso dovrà poi risolvere. L’insegnamento, se è legittimo ancora utilizzare questo termine, si risolve pertanto: 1) nella posizione di un problema che il discente dovrà risolvere; 2) nel mostrare come la risoluzione di quel problema abbia una ricaduta pratica, cioè nel mostrare l’utilità di quello specifico sapere.

Rendete il vostro allievo attento ai fenomeni della natura, ben presto lo renderete curioso; ma, per nutrire la sua curiosità, non affrettatevi mai a soddisfarla. Mettete le questioni alla sua portata, e lasciategliele risolvere.  Che non sappia nulla perché voi glielo avete detto, ma perché lo ha capito lui stesso; che non impari la scienza, ma la inventi. (Libro III, 2) 

…Se non si deve esiger niente dai bambini per obbedienza, ne segue che non possono imparare nulla di cui non sentano il vantaggio presente ed attuale, sia di diletto, sia d’utilità; altrimenti che motivo li indurrebbe ad apprendere? (Libro II, 14) 

…Osservavamo la posizione della foresta a nord di Montmorency, quando egli m’interruppe con la sua importuna domanda: A che serve ciò? Avete ragione, gli dico, bisogna pensarci con comodo; e se troveremo che questo lavoro non serve a niente, non lo riprenderemo più, giacché non ci mancano certo i divertimenti utili. Ci si occupa d’altro, e per il resto della giornata non si parla più di geografia. 

…L’indomani mattina gli propongo una passeggiata prima di colazione; egli non domanda di meglio: per correre i bambini sono sempre pronti e questo ha buona gambe. Entriamo nella foresta e percorriamo i prati, ci sperdiamo, non possiamo più ritrovare la nostra strada. Il tempo passa, viene caldo, cominciamo ad aver fame; ci affrettiamo, erriamo vanamente da una parte all’altra, dappertutto non troviamo che boschi, cave, spianate, nessun indizio per raccapezzarci. […] Dopo qualche istante di silenzio gli dico con aria inquieta: Mio caro Emilio, come faremo ad uscire di qui?  Emilio:  Non lo so. Sono stanco; ho fame; ho sete; non ne posso più. Gian Giacomo:  Credete che io stia meglio di voi? E pensate che mi asterrei dal piangere se potessi far colazione con le mie lagrime? Non si tratta di piangere, si tratta di raccapezzarci. Vediamo il vostro orologio; che ora è? Emilio:  E’ mezzogiorno e sono digiuno.

Gian Giacomo:  E’ vero, è mezzogiorno e sono digiuno.

Emilio:  Oh! Che fame dovete avere!

Gian Giacomo:  Il male è che il mio desinare non mi verrà a cercare qui. E’ mezzogiorno: è precisamente l’ora in cui ieri, da Montmorency, osservavamo la posizione della foresta. Se noi potessimo anche osservare dalla foresta Montmorency?

Emilio:  Sì; ma ieri noi vedevamo la foresta, e da qui non vediamo la città.

Gian Giacomo:  Ecco il male….. se potessimo fare a meno di vederla per trovare la sua posizione?

Emilio:  O mio buon amico!

Gian Giacomo: Non dicevamo che la foresta era…

Emilio:  A nord di Montmorency.

Gian Giacomo:  Di conseguenza Montmorency dev’essere…..

Emilio:  A sud della foresta.

Gian Giacomo:  Noi abbiamo un mezzo di trovare il nord a mezzogiorno.

Emilio:  Sì, con la direzione dell’ombra.

Gian Giacomo:  Ma il sud?

Emilio:  Come fare?

Gian Giacomo: Il sud è l’opposto del nord.

Emilio:  Questo è vero; basta cercare l’opposto dell’ombra. Oh! Ecco il sud! Ecco il sud! Certo Montmorency è da quest parte; cerchiamo da questa parte.

Gian Giacomo:  Potete aver ragione: prendiamo questo sentiero attraverso il bosco.

Emilio:  Ah! Io vedo Montmorency! Eccola, proprio davanti a noi, tutta in vista. Andiamo a mangiare, andiamo a desinare; corriamo presto: l’astronomia serve a qualche cosa. Badate che se egli non dirà quest’ultima frase, la penserà; poco importa, purché solo non sia io a dirla.


A partire dal 1749 Rousseau è uno dei collaboratori dell'Encyclopédie, opera per la quale scriverà diversi articoli soprattutto di argomento musicale. Vive nell'ambiente degli intellettuali parigini a stretto contatto con le personalità più influenti del movimento illuminista, al cui gruppo per un certo periodo appartiene. Ma nel dicembre del 1757 si consuma la rottura con gli amici di un tempo: gli illuministi si distaccano da lui, egli da loro, sempre più duramente. E’ sua la scelta della solitudine, dalla quale parla al suo pubblico attraverso i suoi libri testimoniando con la sua vita il rifiuto della società del tempo. Indipendentemente da problemi dovuti a incomprensioni ed a motivi personali di conflitto, che pure vi furono, la radice profonda del dissidio con il gruppo dei philosophes è nella diversa visione dell'uomo. Rousseau sottolinea il ruolo della coscienza e del sentire, morale e religioso, e diffida della concezione illuminista della ragione. È contrario all'ateismo, diffuso tra i ceti elevati della società francese, così contrario al comune sentire del popolo. Rispetto alla società letteraria del tempo Rousseau prende il più possibile le distanze e si appella al pubblico. Questo è il clima spirituale nel quale, nell'isolamento di Montmorency, nascono parallelamente il Contratto sociale e l'Emilio.
 
Il manoscritto di quest'ultimo viene stampato contemporaneamente a Parigi e ad Amsterdam, superate le resistenze dello stesso Rousseau che, a causa di un capitolo in esso presente, Professione di fede del vicario savoiardo, teme per le conseguenze della pubblicazione dell'opera in Francia. Aveva ragione di temere. Essa appare nel maggio del 1762, e già il 9 giugno il parlamento di Parigi accogliendo la richiesta del Fleury - l'uomo che aveva attaccato l'Encyclopédie - condanna a maggioranza l'Emilio «ad essere lacerato e dato alle fiamme dall'Esecutore dell'Alta Giustizia». Avvertito nella notte dell'arresto imminente, Rousseau deve immediatamente fuggire. Due giorni dopo l'opera viene data alle fiamme sui gradini del Palazzo di giustizia. Quindi si ha una analoga condanna da parte di Ginevra - condanna particolarmente dolorosa per Rousseau. Poi nell'agosto il vescovo di Parigi mette il libro all'indice e nell'ottobre giunge la condanna dello stesso Papa Clemente XIII.
L’Emilio: Libro IV, Professione di fede di un vicario savoiardo
Appendice che precede la professione e che puntualizza quale idea abbia Rousseau riguardo l’insegnamento tradizionale della religione:
L’uomo no comincia facilmente a pensare, ma non appena comincia non cessa più. Chiunque ha pensato penserà sempre, e l’intelletto esercitato alla riflessione, non può più restare in riposo. All’idea di Diosi arriva solo lentamente e per astrazione, partendo dalle esperienze sensibili…la parola spirito non ha alcun significato per chi non ha filosofato. L’uso prematuro di tali concetti non fa che promuovere concezioni inadeguate e antropomorfiche dello spirito e della divinità. Concepire l’idea di Dio significa concepire una sostanza o causa assoluta, che abbraccia e spiega tutto l’ordine dell’Universo, ciò è appunto la più alta delle astrazioni…Prevedo quanti lettori saranno sorpresi nel vedermi seguire tutta la prima età del mio allievo senza parlargli di religione. A quindici anni non sapeva se aveva un’anima e forse a diciotto non ancora tempo che lo impari…se avessi da dipingere la stupidità importuna, dipingerei un pedante che insegna il catechismo ai fanciulli; se volessi rendere un bambino pazzo, lo obbligherei a spiegare ciò che dice recitando il suo catechismo. Mi si obbietterà che la maggior parte dei dogmi cristiani sono dei misteri…non vedo cosa ci si guadagni a insegnarli ai bambini, salvo che insegnar loro a mentire assai per tempo. Bisogna credere in Dio per essere salvati. Questo dogma mal inteso è il principio della sanguinaria intolleranza e la causa di tutte quelle vane istruzioni che portano il colpo mortale alla ragione umana abituandola ad accontentarsi di parole…non c’è un momento da perdere per meritare la salute eterna; ma se per ottenerla, è sufficiente ripetere certe parole, non vedo cosa ci impedisca di popolare il cielo di storni e di gazze così come di bambini…la fede dei fanciulli e di molti uomini è un affare di geografia. Saranno ricompensati per essere nati a Roma piuttosto che alla Mecca? Si dice ad uno che Maometto è il profeta di Dio…si dice all’altro che Maometto è un furfante…Sarebbe meglio non avere alcuna idea della Divinità, piuttosto che averne idee basse, fantastiche ed ingiuriose indegne di lei…
Questa «Professione di fede» si può dividere in tre parti: 1) racconto delle disavventure personali che misero il Vicario in uno stato d’animo di incertezza e di dubbio, avendo scosso la sua fede nella giustizia, e vano ricorso ai filosofi per averne illuminazione; 2) delinea­zione in forma argomentativa di un completo sistema di religione naturale; 3) discussione sul problema della ri­velazione e su quello della preferibilità di una o di un’al­tra particolare religione rivelata. Qui di seguito saranno in parte riportate, in parte maggiore riassunte le parti 2) e 3).
Compresi che, lungi dal liberarmi dai miei dubbi inutili, i filosofi non avrebbero fatto che moltiplicare quelli che mi tormentavano e non ne avrebbero risolto alcuno. Presi dunque un’altra guida e mi dissi: consultiamo il lume interiore, esso mi svierà meno che quelli non mi sviino o in ogni caso il mio er­rore sarà il mio, e mi depraverò meno seguendo le mie proprie illusioni che abbandonandomi alle loro menzogne.
 
Io credo che una volontà muova l’universo e animi la natura. Se la materia in quanto mossa mi rivela una volontà, la materia mossa secondo precise leggi mi rivela un’intelligenza. L’uomo è dunque libero nelle sue azioni e, come tale, animato da una sostanza immateriale.
Io esisto, e ho dei sensi per mezzo dei quali sono impressionato. Ecco la prima verità che mi colpisce, e alla quale sono forzato ad assentire…Le mie sensazioni si svolgono in me, poiché esse mi fanno sentire la mia esistenza; ma la loro causa mi è estranea, poiché esse mi impressionano mio malgrado, e non dipende da me né produrle né annul­larle. Concepisco dunque chiaramente che la sensa­zione che è in me, e la sua causa o il suo oggetto che sono fuori di me, non sono la stessa cosa. Così, non soltanto io esisto, ma esistono degli altri esseri, cioè gli oggetti delle mie sensazioni; e quand’anche questi oggetti non fossero che delle idee, è sempre vero che queste idee non sono io.
Ora, tutto quello che sento fuori di me e che agisce sui miei sensi, io lo chiamo materia; e tutte le porzioni di materia che concepisco riunite in esseri individuali, le chiamo corpi. Così tutte le dispute de­gli idealisti e dei materialisti non significano niente per me: le loro distinzioni sull’apparenza e la realtà dei corpi sono delle chimere.
Le prime cause del movimento non sono affatto nella materia; essa riceve il movimento e lo comu­nica, ma non lo produce. Più osservo l’azione e reazione delle forze della natura agenti le une sulle altre, più trovo che, d’effetto in effetto, bisogna sem­pre risalire a qualche volontà come causa prima; ammettere infatti un regresso di cause all’infinito equivale a non ammettere niente. In una parola, ogni movimento che non è prodotto da un altro, non può venire che da un atto spontaneo, volontario; i corpi inanimati non agiscono che per mezzo del movimento, e non vi sono affatto delle vere azioni senza volontà. Ecco il mio primo principio. Io credo dunque che una volontà muove l’universo e anima la natura. Ecco il mio primo dogma, o mio primo articolo di fede.
Se la materia mossa mi mostra una volontà, la materia mossa secondo certe leggi mi mostra una intelligenza: questo è il mio secondo articolo di fede. Agire, confrontare, scegliere, sono le operazioni di un essere attivo e pensante: dunque questo essere esiste. Dove lo vedete esistere? mi state per dire. Non soltanto nei cieli che ruotano, nell’astro che ci rischiara; non soltanto in me stesso, ma nella pecora che pascola, nell’uccello che vola, nella pietra che cade, nella foglia che trasporta il vento.
…Ignoro perché l’universo esiste, ma non cesso mai di guar­dare come è modificato…Io non so, direbbe, a che serve tutto questo; ma vedo che ciascun pezzo è fatto per l’altro; ammiro l’operaio nei particolari della sua opera, e sono ben sicuro che tutte queste ruote non vanno così di concerto che per un fine comune che mi è impÈ impossibile pensare che quest’armonia venga dal caso, per quanto possa supporre immenso il numero dei casi possibili Sarebbe come pensare che « dei caratteri di stampa, gettati a caso, hanno dato l’Eneide bell’e for­mata ». Il mondo è dunque «governato da una volontà potente e saggia». Le varie difficoltà metafisiche che pos­sono sorgere passano in seconda linea di fronte a questa verità luminosa.
«Questo essere che vuole e che può, questo essere attivo per se stesso, questo essere infine, qualunque esso sia, che muove l’universo e ordina tutte le cose, io lo chiamo Dio. Unisco a questo nome le idee di intelligenza, di potenza, di volontà, che ho già riu­nite, e quella di bontà che ne è una conseguenza neces­saria.» Tuttavia di questo essere so ben poco, per quanto lo veda dappertutto nelle sue opere.
Se poi mi volgo a considerare qual posto occupo io, uomo, nell’ordine delle cose, sono colpito dalla mia ec­cellenza. L’uomo è veramente «il re della terra che abi­ta», la sua perfezione è incommensurabilmente maggiore di quella di ogni altra cosa o essere vivente. Ciò suscita in me un «sentimento di riconoscenza e di benedizione per l’autore della mia specie, e da questo sentimento viene il mio primo omaggio alla divinità benefattrice. Adoro la potenza suprema e mi intenerisco sui suoi be­nefici».
Ma se poi considero la società umana come tale, il quadro muta totalmente, non vi vedo che confusione e disordine, e nasce il problema di spiegare «il male sulla terra».
…L’uomo è dunque libero nelle sue azioni, e come tale animato da una sostanza immateriale, questo è il mio terzo articolo di fede. Da questi primi tre dedurrete facilmente tutti gli altri, senza che io con­tinui a tenerne il conto.
Iddio ha preferito farmi libero, lasciandomi con ciò la possibilità di volgermi al male, piuttosto che farmi buono per forza: «E che! per impedire all’uomo di es­sere cattivo, bisognava limitarlo all’istinto e farlo bestia?».
Messo assieme così questo corpo di credenze essen­ziali, rimane il problema delle massime da trarne per la mia condotta. Esse si trovano in fondo al mio cuore, nella mia coscienza che è la migliore guida, «il migliore di tutti i casisti», con la quale non si mercanteggia. «La coscienza è la voce dell’anima, le passioni sono la voce del corpo.» La voce della coscienza, pur debole, è pre­sente in tutti, e non ha nulla a che fare con l’interesse, Troviamo i suoi dettami essenziali affermarsi più o meno presso tutti i popoli e in tutte le epoche. Essa non è un portato dell’educazione. Sua funzione è di indicarci dei «beni morali» per conseguire i quali si affronta talvolta anche la morte. Ma com’è possibile che la coscienza si imponga al nostro essere sensitivo? È perché essa stessa è piuttosto un sentimento, un istinto, che un’idea astratta.
Esistere per noi è sentire; la nostra sensibilità è incontestabilmente anteriore alla nostra intelligenza, e noi abbiamo avuto sentimenti prima che idee. Quale che sia la causa del nostro essere essa ha provveduto alla nostra conservazione dandoci dei sentimenti con­venienti alla nostra natura; e non si potrebbe negare che almeno quelli siano innati. Questi sentimenti, quanto all’individuo, sono l’amore di sé, la paura del dolore, l’orrore della morte, il desiderio del benessere. Ma se, come non si può dubitare, l’uomo è socievole per sua natura, o almeno fatto per diventarlo, egli non può esserlo che per altri sentimenti innati, relativi alla sua specie; infatti, a non considerare che il bisogno fisico, questo deve certamente disperdere gli uomini anziché avvicinarli. Ora è dal sistema mo­rale formato per mezzo di questo duplice rapporto con se stesso e con i suoi simili che nasce l’impulso della coscienza 1“. Conoscere il bene non è amarlo: l’uomo non ne ha una conoscenza innata; ma non ap­pena la sua ragione glielo fa conoscere, la sua co­scienza lo porta ad amarlo; è questo sentimento che è innato.
Quando il Vicario ha finito il suo ispirato discorso, nel quale R. vede, su per giù, «il teismo [13] o la religione naturale, che i cristiani affettano di confondere con l’atei­smo o l’irreligione, che è la dottrina direttamente oppo­sta», il giovane suo ascoltatore chiede che gli parli della Rivelazione, delle Scritture, dei dogmi.
Il Vicario sembra cambiare tono: in queste questioni non vede che «imbarazzo, mistero, oscurità», non vi sente che «incertezza e diffidenza». Inizia criticando l’idea di Rivelazione, per l’impossibilità stessa di provarla tale. I miracoli, a parte la loro attendibilità, non provano niente neanche per il credente: «dopo aver provato la dottrina per mezzo del miracolo, bisogna provare il mira­colo per mezzo della dottrina, per paura di scambiare l’opera del demonio con l’opera di Dio»; infatti le stesse Scritture dicono che i miracoli di un profeta annunziante degli dèi stranieri sono buone ragioni per metterlo su­bito a morte. Le profezie sarebbero credibili solo da chi ne fosse testimonio diretto, e fosse poi altresì testimo­nio dell’avvenimento, e potesse tassativamente escludere che si tratti di coincidenza fortuita.
Si tratterebbe semmai di scegliere tra le diverse re­ligioni razionalmente, in base ad un giudizio motivato. Ma come fondare un tale giudizio? Dove una religione predomina, le ragioni delle altre vengono distorte, e nep­pure i pochi che le professano hanno il coraggio di esporle senza riserve. Se gli uomini volessero sul serio operare una tale scelta, dovrebbero viaggiare e studiare tutta la vita, e nel mondo non si farebbe più altro, se pure la società potesse sussistere.
Unica rivelazione, unico «libro» è quello della na­tura. La «santità del Vangelo » è un argomento che parla al cuore, ma perciò appunto siamo autorizzati a trarne tutto quanto il cuore approva e cosi la nostra ragione, non le « cose incredibili », le « cose che ripugnano alla ragione », che pure vi sono.
Ecco lo scetticismo involontario nel quale sono rimasto; ma questo scetticismo non mi è per niente penoso, perché non si estende affatto ai punti essen­ziali per la pratica, e perché io sono ben deciso sui principi di tutti i miei doveri. Io servo Dio nella semplicità del mio cuore. Non cerco di sapere che ciò che è importante per la mia condotta. Quanto ai dogmi che non influiscono né sulle azioni, né sulla condotta, e per i quali tanta gente si tormenta, io non ci sto punto in angustie. Considero tutte le reli­gioni particolari come tante istituzioni salutari che prescrivono in ciascun paese una maniera uniforme di onorare Dio per mezzo di un culto pubblico, e che possono tutte aver le loro ragioni in base al clima, al governo, al genio del popolo, o a qualche altra causa locale che rende l’una preferibile all’altra, secondo i tempi e i luoghi. Io le credo tutte buone quando vi si serve Dio convenientemente. Il culto essenziale è quello del cuore.
La conclusione cui giunge il Vicario è che ciascuno farebbe bene ad accettare completamente la religione del suo paese, con questa sola, ma decisiva riserva: di op­porsi ad ogni suo aspetto di intolleranza. Perciò consiglia al giovane Rousseau di tornarsene a Ginevra e di ripren­dere la. religione dei suoi padri, giacché «nell’incertezza in cui siamo, è una presunzione imperdonabile il profes­sare un’altra religione che non sia quella in cui si è nati».  “Figlio mio, tenete la vostra anima in stato da deside­rare che vi sia un Dio, e non ne dubiterete mai», asse­risce il Vicario come ultimo succo di tutti i suoi ragiona­menti, e conclude con un’ultima puntata polemica contro le «desolanti dottrine» dei filosofi materialisti, che pure « si vantano ancora di essere i benefattori del genere umano ».